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Dott. Annibali, cosa sono le emorroidi? Le emorroidi sono cuscinetti che si trovano nel canale anale (due a destra e uno a sinistra) formati da un “gomitolo” di tanti piccoli vasi sanguigni attraverso i quali circola il sangue. Questi cuscinetti si gonfiano grazie alla presenza di piccolissime valvole che hanno la funzione di controllare la giusta quantità di sangue in entrata e in uscita. La scopo per cui questi cuscinetti si gonfiano e si sgonfianonon è ancora del tutto chiaro.  Si sa solo che quando le valvole non funzionano più in modo corretto si ha un ristagno di sangueall’interno delle emorroidi che ne provoca il rigonfiamento. In questo caso si parla di malattia emorroidaria, anche se nel linguaggio comune si utilizza il termine “emorroidi” per indicare la patologia.  Esistono diverse tipologie e gradi di malattia emorroidaria? Assolutamente sì. Innanzitutto, può essere interna, esterna o mista, in base a dove si collocano le emorroidi. La malattia con emorroidi interne viene classificata secondo quattro gradi di gravità:  nel 1˚ grado le emorroidi possono protrudere, ma non sono prolassate; nel 2˚ grado presentano un prolasso intermittente, con riduzione spontanea al termine dello sforzo;nel 3˚ grado il prolasso deve essere ridotto manualmente dal paziente; nel 4˚ grado il prolasso e’ irriducibile. Quali disturbi possono dare? Si manifestano disturbi quali sanguinamento, dolore o bruciore anale,  prurito, perdite di muco ed irritazione anale. La defecazione diventa inevitabilmente difficoltosa e dolorosa. Tra le principali complicazioni, troviamo l’emorragia massiva, il prolasso emorroidario e la tromboflebite. Quale è oggi la cura più appropriata per la malattia emorroidaria? Esistono diversi rimedi, che possono essere ambulatoriali nei casi più lievi (1˚ e 2˚ grado). Nei casi più avanzati ( 3˚ e 4˚ grado), però, questi rimedi non sono altrettanto efficaci, ed e’ necessario il ricorso ad un vero e proprio intervento chirurgico radicale. Fino a non molto tempo fa, questo significava un ricovero medio di circa 4-5 giorni, l’astensione dall’attività lavorativa per circa un mese, e… proverbiali gravi sofferenze dovute al dolore nel periodo postoperatorio!  I progressi compiuti dalla chirurgia mini-invasiva hanno coinvolto anche questo campo, consentendo oggi di eseguire una emorroidectomia completa e radicale in regime ambulatoriale o di day-hospital. Lei ha introdotto in Italia una nuova tecnica per la cura chirurgica delle emorroidi. Di che cosa si tratta? E’ così. La tecnica chiusa di Nivatvongs-Annibali è stata perfezionata presso la prestigiosa Mayo Clinic di Rochester negli Stati Uniti. L’intervento puo’ essere eseguito completamente in anestesia locale, ricorrendo a particolari accorgimenti che consentono di eliminare i fastidi causati al paziente dalle iniezioni. In questo modo si prolunga l’effetto antidolorifico per alcune ore nell’immediato periodo postoperatorio. Non viene eseguita alcuna legatura interna dei gavoccioli (spesso tra le maggiori cause del dolore), perché questi vengono asportati completamente.  E’ possibile, infatti, estendere la resezione all’interno del canale anale oltre i limiti imposti dalla tecnica tradizionale, grazie a particolari dilatatori.  L’intervento è dunque radicale e definitivo? Sicuramente la radicalità è maggiore, così come si riduce grandemente il rischio di recidive (meno dell’1%) rispetto a quello della tecnica tradizionale (più del 20%). La certezza assoluta che il problema sia risolto per sempre non è al momento possibile. Il paziente in quali condizioni viene dimesso? Innanzitutto, le ferite vengono suturate, per non dimettere il paziente con dolorose e fastidiose lesioni “aperte”, motivo di disagio anche per la perdita di maleodoranti secrezioni. In questo modo, non e’ piu’ necessario introdurre alcun tampone nel canale anale al termine dell’intervento. I punti di sutura sono riassorbibili e le ferite guariscono in un periodo di circa 10 giorni.  La maggior parte dei pazienti e’ in grado di riprendere le normali attivita’ lavorative dopo circa una settimana. Oggi, e’ anche possibile eseguire l’intervento con una apposita suturatrice meccanica, capace di suturare automaticamente le ferite al momento dell’asportazione dei pacchetti emorroidari, eliminando completamente ogni perdita di sangue e riducendo ulteriormente il dolore e i tempi di recupero dopo l’intervento.  Dott. Riccardo Annibali [fonte: DossierSalute.com] ...

[embed]https://www.youtube.com/watch?v=WG26xly6UUY[/embed] Dott. Annibali, cos’e’ una ragade anale? E’ una lacerazione, una spaccatura del tessuto cutaneo e mucoso a cavallo del margine anale. Le ragadi anali possono presentarsi in forma acuta o cronica. La ragade è considerata acuta se presente da meno di 6 settimane e si presenta come un solco doloroso, superficiale e ben demarcato La ragade è invece considerata cronica se è presente da più di 6 settimane, con base fibrotico-cicatriziale che lascia intravvedere le fibre del muscolo sfintere interno, circondata da tessuto infiammatorio e margini callosi.  Frequentemente si associa a una papilla ipertrofica all’apice a un polipo sentinella alla base della ragade stessa. Nei casi cronici di vecchia data è possibile a volte la formazione di abbondante tessuto cicatriziale che condiziona un restringimento dell’ano con conseguente difficoltà meccanica alla evacuazione. In casi rari è possibile anche lo sviluppo di un ascesso e di una fistola perianale.    Esistono dati precisi sulla diffusione del problema? Ci sono fasce di età più colpite di altre? In Italia è la seconda causa di visita proctologica: circa 5200 pazienti esaminati  ogni anno di cui il 37% verrà poi sottoposto a intervento. La prevalenza della patologia si aggira intorno all’11% della popolazione.  Negli Stati Uniti colpisce 1 persona su 300, quindi fino a una persona su cinque può arrivare a sviluppare una ragade nel corso della vita. Il problema può presentarsi a qualunque età, ma si riscontra più frequentemente nei pazienti giovani e negli adulti di mezza età mentre è rara dopo i 65 anni. Nella grande maggioranza dei casi le ragadi sono localizzate lungo la linea mediana nel quadrante posteriore. Molto più raramente le lesioni sono nella zona anteriore, e in questo caso sono più frequenti nel sesso femminile. In circa il 10% dei casi le ragadi compaiono contemporaneamente sia anteriormente che posteriormente.   Perché si forma la ragade? Un tempo si pensava che la ragade fosse semplicemente una lacerazione del canale anale legata a un trauma meccanico dovuto al passaggio di feci molto dure. Oggi sappiamo che questo è un fattore favorente, ma la situazione è più complessa. Alla base della malattia vi è innanzitutto un ipertono dello sfintere anale interno, che nei pazienti con ragadi ha una pressione di riposo più elevata del normale. Questo dato era già stato osservato empiricamente in passato, ma è stato documentato recentemente con i mezzi diagnostici moderni come la manometria anorettale. Inoltre, in questi pazienti, si ha un comportamento anomalo dello sfintere in risposta alla dilatazione rettale in presenza di feci. Di norma, la dilatazione del retto scatena un riflesso che provoca il rilasciamento dello sfintere e permette l’evacuazione; nei pazienti con ragadi accade esattamente il contrario, per cui il muscolo, anziché distendersi, si contrae. Infine, è implicato un processo di ischemia, correlato anche al fatto che la maggior parte delle ragadi è localizzata in corrispondenza della commessura posteriore. Studi angiografici hanno dimostrato che questa zona dell’ano è anche quella meno perfusa: un minimo danno in questa sede viene quindi riparato con difficoltà, perché lo scarso apportosanguigno ostacola la cicatrizzazione e favorisce invece la cronicizzazione. In più, il problema dell’ischemia è legato a doppia mandata a quello dell’ipertono, perché le arteriole che irrorano la mucosa e la sottomucosa anale decorrono perpendicolarmente alle fibre muscolari dello sfintere. La contrazione eccessiva del muscolo determina una compressione di questi vasi, creando un ulteriore ostacolo all’afflusso di sangue e quindi un peggioramento del quadro ischemico.   E’ vero che ragade anale e stato psicologico sono correlati? Sì. La ragade è una patologia strettamente correlata allo stato psicologico: i pazienti affetti da ragade anale presentano delle caratteristiche psicologiche abbastanza costanti e ripetitive: si tratta generalmente di soggetti che stanno attraversando un periodo della loro vita in cui sono preoccupatiper l’evoluzione di determinate situazioni, con una particolare paura di “non farcela a…” o “non ci sarà abbastanza di …”. Questo comporta una tendenza eccessiva a controllare gli eventi che si traduce in un aumento involontario del tono sfinterico anale, primo elemento eziopatogenetico. Spesso, l’insorgenza di una ragade è riscontrabile in occasione di un cambiamento nell’ambito lavorativo, dopo la perdita di una persona cara, durante e dopo una separazione in campo sentimentale o in prossimità di un cambiamento di residenza. In genere si tratta di persone con una certa rigidità di carattere e dotati spesso di una certa pignoleria.   Come si può fare diagnosi di una ragade? Il sospetto di una ragade anale è spesso già possibile all’ascolto della anamnesi. Il paziente riferisce in modo caratteristico un dolore intenso, urente, descritto come il passaggio di una “lama di rasoio” o di un “vetro rotto”, che insorge durante o subito dopo l’evacuazione, di durata variabile da qualche minuto a diverse ore dopo la defecazione. Può anche riferire un possibile saltuario sanguinamento durante o dopo la defecazione. Una diagnosi precoce è importante per evitare la cronicizzazione, che avviene in tempi piuttosto rapidi. In ogni caso, quanto prima la si diagnostica, tanto maggiori sono le possibilità che la ragade non si sia ancora fortemente cronicizzata e quindi tanto più alte sono le probabilità di avere successocon la terapia medica, senza dover ricorrere al bisturi. Nelle ragadi croniche si instaura un circolo vizioso (ipertono – dolore- ulteriore contrazione dello sfintere) che non sempre è facile spezzare con i farmaci. Se la diagnosi fosse sempre tempestiva, invece, si risparmierebbero molti interventi chirurgici. Non dimentichiamo, inoltre, che le ragadi croniche possono dar luogo a complicanze, come la sepsi o una stenosi dell’ano che può essere anche grave. Comunque, la diagnosi è semplice, perché il retto è un organo accessibile dall’esterno e non occorrono strumenti sofisticati.  E’ sufficiente divaricare l’ano perché nella maggior parte dei casi la ragade è già visibile in questa fase. Occorre poi eseguire una delicata esplorazione rettale digitale, naturalmente con molta cautela vista la possibilità di evocare dolore con tale manovra, e completare l’osservazione con l’ausilio di un anoscopio.   Dott. Annibali, parliamo della terapia delle ragadi. Quando si decide di operare? Un tempo, le ragadi acute venivano curate con la terapia medica e quelle croniche invariabilmente con la chirurgia. Oggi non è più così. Tutte le moderne linee guide prevedono di provare sempre in prima battuta la terapia farmacologica con i nitrati o i calcio antagonisti. Il paziente candidato all’intervento è quello in cui si è tentata la terapia medica per 6 settimane, senza i risultati sperati. Se dopo questo periodo si ha ancora una sintomatologia piuttosto spiccata e la ragade non ha mostrato alcuna variazione delle sue caratteristiche patologiche, a quel punto il paziente va inviato in sala operatoria. Sono poi candidati direttamente alla chirurgia tutti i pazienti che presentano complicanze come sepsi, fistole e una marcata stenosi dell’ano. Studi eseguiti in Inghilterra e Scozia hanno evidenziato un calo del 60% degli interventi chirurgicidopo l’introduzione dei nuovi farmaci in grado di ridurre la tensione del muscolo. Una buona percentuale di pazienti che in precedenza finivano subito nelle mani del chirurgo, riesce ora a risolvere il proprio problema con la terapia farmacologica.   Quali sono i tipi di intervento praticati attualmente? Il più utilizzato ancora oggi è la sfinterotomia interna, un intervento che ha estimatori e detrattori, ma che rappresenta tuttora il gold standard della terapia chirurgica. L’altro, meno diffuso, è l’anoplastica. L’obiettivo della sfinterotomia è eliminare lo spasmo muscolare praticando con un bisturi una piccolissima incisione nelle fibre dello sfintere interno. Ne esistono due varianti: posteriore mediana e laterale. La posteriore, proposta per prima, prevede un’incisione attraverso la ragade posteriore e ha il vantaggio di permettere l’escissione della ragade. E’ una tecnica efficace, con buone percentuali di successo, ma è gravata da un certo rischio di complicanze. In alcuni casi può provocare una deformità anale “a buco di serratura” e questo può a sua volta tradursi in un’incontinenza ai gas e alle feci liquide e quindi in un rischio di imbrattamento degli indumenti intimi. Per questo è stata un po’ abbandonata a favore della sfinterotomia laterale, che ha molti più sostenitori ed è oggi l’intervento elettivo di scelta. La procedura prevede una piccola incisione parziale della parte bassa dello sfintere interno a distanza dalla lesione, più spesso sul lato sinistro. Può essere eseguita con una “tecnica aperta”, praticando una incisione nel quadrante laterale per accedere al margine inferiore del muscolo sfintere interno. Oppure, più recentemente, con la cosiddetta “tecnica chiusa”, che prevede l’introduzione di un piccolo bisturi da oculista nel solco tra sfintere esterno e sfintere interno attraverso una micro- incisione di 1 mm. A questo punto, con manovre adeguate si sezionano le fibre più periferiche dello sfintere interno, cercando di non danneggiare la mucosa. In entrambi i casi l’intervento è molto efficace portando alla risoluzione del dolore con tassi di guarigione intorno al 95%, ma non è privo di complicanze, anche se meno frequenti rispetto alla posteriore. In entrambi i casi, inoltre, si possono avere recidive. La sfinterotomia con tecnica chiusa comporta meno dolore e una ripresa più rapida, ma le complicanze (la formazione di ematomi e infezioni, per esempio) sono anche più numerose.   Ci sono controindicazioni all’intervento? Bisogna essere molto, molto cauti in quei pazienti che hanno disturbi della coagulazione o assumono anticoagulanti e non li hanno sospesi. L’intervento è chiaramente controindicato anche nei soggetti che già in passato hanno presentato fenomeni di incontinenza, magari perché già operati di fistola anale o emorroidi. In questo caso la sfinterotomia va evitata.   E l’anoplastica in cosa consiste? Si esegue prelevando nella zona perianale lembi cutanei sani e vascolarizzati, che vengono modellati in diverso modo a seconda dei casi e poi posizionati in modo da coprire la breccia della ragade, un po’ come fossero delle “toppe”. In genere la si riserva a quei pazienti – non molti, ma ce ne sono – che pur avendo una ragade anale, non presentano un ipertono dello sfintere. In questo caso non c’è bisogno di andare a sezionare il muscolo e il problema si risolve semplicemente applicando questo lembo cutaneo. Aggiungerei che è indicata anche quando le ragadi sono molto grosse e quando sono complicate da una stenosi. In questo caso l’anoplastica è la prima scelta, così come nelle recidive. Se una ragade già operata si riforma, la seconda volta non si fa un’altra sfinterotomia, ma si ricorre all’anoplastica. Infine, la si propone ai pazienti che hanno un rifiuto psicologico nei confronti della sfinterotomia perché associano in modo inconscio il taglio del muscolo a un’impossibilità di controllare. A mio parere è un ottimo intervento e, se eseguito correttamente, dà ottimi risultati senza esporre allo stesso rischio di incontinenza della sfinterotomia. Tuttavia, bisogna considerare che si tratta di un intervento abbastanza complesso, che richiede mani esperte e grande precisione e accuratezza. In Italia lo si esegue in pochi centri. Mentre una sfinterotomia può essere praticata anche da anche un chirurgo generale, un’anoplastica ben fatta è in genere appannaggio di un chirurgo colorettale con una grande esperienza alle spalle.   Abbiamo letto anche di dilatazione manuale: davvero può curare la ragade anale? Un tempo sì, era infatti un intervento in voga in passato e consisteva in una dilatazione manuale delle fibre muscolari, effettuata introducendo quattro dita nel canale anale e allargando lo sfintere. Le percentuali di guarigione erano inferiori a quelle della sfinterotomia, quelle di recidiva piuttosto alte. Ma l’inconveniente principale è quello di provocare un danno sfinterico documentato ecograficamente in più del 50% dei pazienti e problemi di incontinenza in una percentuale molto elevata, decisamente superiore alla sfinterotomia. Questa metodica è ormai ritenuta obsoleta e in Italia non si esegue quasi più. Esiste comunque oggi la possibilità di prescrivere appositi dilatatori gestiti in modo autonomo dal paziente a domicilio, ma la percentuale di successo con questo metodo è decisamente inferiore alla sfinterotomia e l’accettazione da parte dei pazienti di questa terapia è molto bassa.   Novità all’orizzonte? Ad esempio la dilatazione con palloncino è un intervento che sembra dare molta meno incontinenza rispetto alla sfinterotomia, ma è ancora in fase di studio e non è ancora entrato nella pratica clinica di routine. Consiste nel posizionamento sull’ano, a cavallo della zona di alta pressione dello sfintere, di un palloncino che viene gonfiato in modo graduale e controllato, provocando una distensione delle fibre muscolari e quindi una riduzione della pressione anale a riposo. Il grosso vantaggio di questa tecnica è il tempo operatorio brevissimo, 7 minuti circa, con percentuali di successo, seppure leggermente inferiori a quelle della sfinterotomia, comunque molto buone. Inoltre, dato molto positivo, i controlli ecografici hanno dimostrato che questa tecnica non provoca lesioni dello sfintere, come invece accadeva con la vecchia dilatazione manuale....

Dott. Annibali, cos’è la diastasi addominale? Anche se poco conosciuta, la diastasi è un problema piuttosto diffuso tra le donne che hanno avuto un bambino. I retti addominali sono due fasci muscolari longitudinali, uno a destra e uno a sinistra, che si estendono dall’arcata costale fino al pube; i due retti sono divisi dalla linea alba, una linea millimetrica, ma molto robusta situata proprio a metà dell’addome. La diastasi altro non è che l’allargamento di questa linea, allargamento dovuto alla pressione di qualcosa che spinge fortemente sui fasci muscolari dall’interno dell’addome e fa sì che la giunzione, normalmente di qualche millimetro e piuttosto robusta, tenda ad allagarsi anche di diversi centimetri. La linea diventa, quindi, una banda fibrosa, in corrispondenza della quale vi è un indebolimento della parete muscolare addominale: i visceri che spingono tendono a causare una protrusione, simile ad un salsicciotto che emerge longitudinalmente dall’addome. Non si tratta, eccetto per casi estremamente gravi, di una patologia che può causare grandi disturbi funzionali, ma è abbastanza disabilitante dal punto di vista estetico.   Chi può soffrire di diastasi addominale? La patologia è tipica delle persone che hanno subito degli aumenti di peso abbastanza rapidi (è molto presente tra i forti bevitori di birra!) e delle donne che hanno avuto una gravidanza. Paradossalmente, è un problema molto diffuso tra le donne più atletiche, che danno importanza alla linea e all’aspetto fisico: gli addomi scolpiti di queste donne vengono messi a dura prova dal volumedel feto che cresce e dagli ormoni. Lo scopo principale del progesterone in gravidanza, infatti, è proprio quello di rilassare la muscolatura in modo che il corpo si predisponga all’accoglienza del feto. Altri fattori di rischio sono le gravidanze gemellari e quelle in cui è presente una grande quantità di liquido amniotico.   Quando la diastasi addominale diventa più di un problema estetico? In molti casi, dopo circa un anno dal parto, la divisione tra i retti addominali torna a non superare il centimetro; in altri casi, invece, la linea alba rimane più dilatata. Uno dei problemi principali causati della diastasi è il mal di schiena: la distanza tra i muscoli, infatti, crea un disequilibrio tra le tensioni esercitate sulla muscolatura lombare e su quella addominale, dovuto al fatto che l’addome ha perso tonicità durante la gravidanza. Anche se non particolarmente comuni, possono originarsi ernie epigastriche, poiché la debolezza della parete addominale favorisce la fuoriuscita dei visceri dalla sede naturale. Da non tralasciare sono anche le ripercussioni psicologiche ed emotive della diastasi, legate all’attenzione considerevole che oggi si dà all’estetica.   Come ci si accorge di soffrire di diastasi addominale? Bisogna sottolineare che, dopo una gravidanza, l’addome della donna rimane inevitabilmente alterato: solo una minoranza recupera un perfetto tono muscolare! È la stessa paziente che si accorge per prima della diastasi, notando un rilassamento dell’addomequando si trova in posizione eretta (alcune donne riferiscono una pancia come al terzo mese di gravidanza). Per verificare l’allargamento, la paziente deve sdraiarsi su una superficie rigida, sollevare la testa e toccare, con le dita delle mani unite, l’asse longitudinale dell’addome; se le dita entrano facilmente nella fessura tra i retti addominali, allora c’è probabilmente un problema di diastasi. Lo specialista valuterà, poi, la distanza trasversale tra i due muscoli retti e la lunghezza della diastasi, che può essere variabile, definendosi: Diastasi completa, se si estende dall’apice dello sterno al pube. Diastasi parziale, se si trova tra sterno e ombelico, tra ombelico e pube o a cavallo dell’ombelico. Il chirurgo effettua la diagnosi manualmente e può anche servirsi dell’ecografia o della TACaddominale per avere informazioni più precise sulla dimensione dell’apertura addominale.   Come si cura la diastasi addominale? Esistono degli esercizi che possono irrobustire e tonificare il muscolo trasverso addominale, muscolo dal movimento cilindrico e concentrico che compone la muscolatura laterale, insieme al muscolo obliquo interno e obliquo esterno. Le persone che soffrono di diastasi tendono, spesso mal guidati dai personal trainer, a fare eserciziper irrobustire i retti addominali. Questo, in realtà, è un errore: l’ipertrofia dei retti, che ricordiamo non sono uniti tra loro, tende a far aumentare la diastasi. Il fisioterapista può aiutare nel fare un primo tentativo con questi esercizi, che in una buona percentuale dei casi portano a un miglioramento. Se però il gap rimane consistente, allora è necessaria la chirurgia.   In che modo interviene la chirurgia? La riabilitazione chirurgica mira a riavvicinare i due fasci muscolari dei retti addominali fissandoli con delle suture e ricostituendo una linea alba sottile e robusta. Alcuni chirurghi preferiscono rinforzare la sutura fatta manualmente con delle reti protesiche, che garantiscono sì supporto alla parete addominale, ma che allo stesso tempo la irrigidiscono. Nella maggior parte dei casi questo non è necessario. Fino a qualche tempo fa, l’intervento prevedeva un’incisione poco estetica, che seguiva tutta la diastasi per tutta la sua lunghezza; il risultato era una cicatrice, più o meno evidente, sulla linea mediana. Un’altra soluzione era, ed è tutt’ora, quella di eseguire un’addominoplastica, soprattutto su quelle donne che presentano anche una certa abbondanza di tessuto adiposo addominale. L’intervento consiste nello scollare lo strato di grasso dallo strato muscolare sottostante, sollevarlo, chiudere il gap della diastasi ed asportare il grasso in eccesso, tutto ciò attraverso un taglio trasversale sotto la linea del bikini. Questo intervento, tuttavia, comporta un’incisione trasversale piuttosto estesa, che in genere si estende da una spina iliaca anteriore superiore all’altra. Oggi si sono trovate soluzioni meno invasive e più estetiche, più adatte alle esigenze delle donne moderne. Si possono, infatti, fare incisioni limitate grazie all’ausilio del laparoscopio: attraverso un piccolo taglio sopra il pube, comparabile ad un taglio cesareo, si può scollare fino all’arcata costale il tessuto adiposo e ricucire la diastasi. L’intervento ha un decorso decisamente meno doloroso rispetto ai due precedentemente descritti. Per il futuro, invece, alcuni chirurghi hanno iniziato ad utilizzare la chirurgia robotica, il famoso Robot Da Vinci, con la quale sarà possibile ricucire i fasci muscolari dall’interno.   Dopo l’intervento i tempi di recupero sono lunghi? Sicuramente sono necessari tempo e pazienza. La paziente, dopo l’intervento, dovrà condurre una vita tranquilla. Per il primo mese la mamma non potrà sollevare il peso del bambino e dovrà portare una fascia contenitiva. Bisogna sottolineare, inoltre, che l’intervento è da eseguirsi solo una volta terminata la pianificazione familiare. Non ha senso sottoporsi a questo tipo di chirurgia se si hanno in previsione future gravidanze....

Dott. Annibali, che cos’è il rettocele? Il rettocele è un problema tutto femminile che consiste nel cedimento della parete rettale nella vagina. Il setto retto-vaginale è la membrana che separa il retto dalla vagina. Il rettocele consiste di fatto nello sfondamento di questa membrana verso la vagina, con la seguente formazione di una sacca estroflessa. La principale conseguenza del rettocele è la stitichezza, che non trova rimedio neanche con l’assunzione di fibre, acqua e lassativi (sindrome da defecazione ostruita). Questo succede perché le feci si incastrano nella sacca che si è formata e non riescono a fuoriuscire. Anche quando la paziente riesce ad evacuare, sentirà sempre un senso di pesantezza nella zona perianale, dovuto al deposito di alcune feci che rimane nella sacca. La sacca che si crea, inoltre, spinge contro la vagina e la vescica, finendo con infiammare l’uretra; la conseguenza è lo stimolo frequente di dover far pipì. Inoltre, a volte, il rettocele si accompagna al cistocele, cioè la formazione di un’ernia all’interno della vagina provocata dal prolasso della vescica. Nella formazione del cistocele giocano un fattore determinante il numero di gravidanze, l’eccessivo peso corporeo, la menopausa e l’abitudine a lavori pesanti. Un altro disturbo causato dal rettocele è il dolore durante il rapporto sessuale (dispareunia), dovuto alla debolezza della parte posteriore della vagina e alla presenza dell’ernia.   Quali sono i fattori di rischio del rettocele? L’età provoca un rilassamento dei tessuti e, quindi, anche della parete rettale; non a caso, la maggior parte delle pazienti colpite da rettocele ha più di 40 anni. Un’altra causa dell’indebolimento del setto retto-vaginale è il numero di gravidanze: ad ogni parto, la membrana tra retto e vagina di indebolisce. Inoltre, parti difficili possono comportare traumi al pavimento pelvico. Anche aver subito un intervento di isterectomia, l’asportazione dell’utero, aumenta il rischio di rettocele, in quanto l’assenza dell’utero comporta un brusco calo del livello di estrogeni, ormoni che contribuiscono a mantenere elastici i tessuti. Altri fattori di rischio sono il sovrappeso, perché il peso eccessivo comporta un affaticamento dei muscoli del pavimento pelvico, e lo stare molto in piedi; in posizione eretta il peso del corpo grava sui muscoli del pavimento pelvico. Nel caso di giovani donne che non hanno partorito, invece, è più probabile che la causa sia da ricercare nella predisposizione congenita, associata spesso a disordini della defecazione come il dissinergismo ano-rettale, in cui viene a mancare il corretto rilasciamento del muscolo sfintere nella fase espulsiva della defecazione.   Come si diagnostica il rettocele? Il Proctologo, ascoltando i sintomi riferiti dalla paziente, potrà facilmente pensare alla presenza del rettocele. Per confermare la diagnosi, la paziente dovrà sottoporsi a diversi esami: Esame proctologico con esplorazione rettale e vaginale: il medico inserisce un dito nell’ano e uno nella vagina per verificare il cedimento del setto retto-vaginale e la presenza della sacca. Defecografia: utilizzando una peretta, viene iniettato nell’ano della paziente del bario come mezzo di contrasto; la donna dovrà poi espellere il liquido. Durante la radiografia, se è presente il rettocele, verranno evidenziati il bario rimasto incastrato nella sacca, consentendo di determinare le dimensioni del rettocele, l’eventuale alterata funzione dello sfintere, ed eventuali altre situazioni spesso associate come: una tendenza alla discesa del pavimento pelvico. Prolasso della mucosa rettale. Invaginazione del retto nell’ano. Prolasso della vescica nella vagina (cistocele). Eccessiva discesa nello scavo pelvico di anse dell’intestino tenue che possono comprimere il rettoostacolandone la funzione evacuativa (enterocele).   Cosa prevede il trattamento del rettocele? Nei casi di dissinergismo ano-rettale, è utile la riabilitazione della funzione dello sfintere mediante apposite ginnastiche (biofeedback). Quando, invece, il rettocele abbia raggiunto dimensioni tali da provocare disturbi (in genere quando raggiunge i 3 cm o più), lo specialista a cui rivolgersi è il Chirurgo Proctologo. Oggi si preferisce operare attraverso l’ano, differentemente da ciò che avveniva in passato, quando il problema veniva affrontato dal chirurgo ginecologo che operava attraverso la vagina. L’operazione prevede una plastica chirurgica della parete ceduta; la parete anteriore del retto viene incisa e rivoltata a tendina per scoprire il cedimento, che viene riparato suturando i due lembi muscolari che circondano la sacca. La tendina viene poi riabbassata per coprire la sutura e ricostituire il rivestimento interno del retto. Il nuovo approccio consente di intervenire anche su problemi rettali spesso associati al rettocele, come il prolasso della mucosa del retto, le emorroidi, la invaginazione retto-anale, o l’ulcera del retto. Si può anche intervenire in contemporanea, insieme al chirurgo urologo o ginecologo, quando sono presenti anche il cistocele o il prolasso dell’utero. Prima dell’intervento, la paziente dovrà eseguire delle analisi del sangue, per escludere l’anemia o eventuali problemi di coagulazione, e sottoporsi ad un elettrocardiogramma, per valutare la funzionalità di cuore e arterie. Inoltre, verrà sottoposta ad un piccolo clistere, per rendere il campo operativo più nitido, e ad una dose di antibiotici per ridurre il rischio di infezione dovute ai batteri fecali.   Quanto dura l’intervento? L’intervento dura all’incirca un’ora e sono davvero rari i casi in cui si verificano complicazioni, per altro di piccola entità e facilmente risolvibili. Generalmente richiede 1 o, al massimo, 2 giorni di ricovero. Il Dr. Annibali è uno dei pochissimi chirurghi al mondo ad eseguire questa operazione con una anestesia puramente locale (molto simile a quella eseguita dai dentisti). Solo in rari casi si ricorre all’anestesia spinale a sella, che consiste in un’iniezione di liquido anestetico tra le vertebre dell’osso sacro, il quale addormenta la zona corrispondente al cavallo dei pantaloni.   Cosa succede dopo l’operazione al rettocele? Dopo l’intervento si possono avvertire tensione, bruciore e sensazione di pesantezza per circa una settimana. È normale, poi, avere piccole perdite di sangue e muco per qualche giorno; si somministrano lassativiper ammorbidire le feci ed è meglio non compiere sforzi eccessivi per il periodo della cicatrizzazionecompleta (due o tre settimane). È bene aspettare almeno tre settimane per tornare ad avere rapporti sessuali. Nella maggior parte dei casi, l’intervento è ben tollerato, ma a volte si possono presentare problemidi urgenza alla defecazione: la paziente sente il bisogno di correre in bagno al momento dello stimolo o di andare in bagno più volte al giorno. Questi disturbi post-operatori spariscono generalmente dopo 3 o 4 settimane dall’intervento....